Meno che meno i Lego Mio figlio è un costruttore nato e, in aggiunta, ha per il momento un ego un tantino smisurato, quindi tende ad allargarsi. La sua cameretta non è mai sufficiente a contenere i suoi giochi, le sue costruzioni e creazioni, e se non minimamente contenuto si insinua ovunque. Negli ultimi tempi ha pure preso la “simpatica” abitudine di attaccare sui muri i suoi disegni, manco fossero opere di Picasso.
Noi cerchiamo di limitare i danni, evitando divieti talebani (nei limiti in cui le sue attività creative non recano danni alla casa e all’arredamento), ma anche ponendo qualche freno alle velleità artistico-ingegneristiche, visto che, in caso contrario, saremmo a breve costretti a levare le tende per far spazio ai suoi infiniti manufatti.
Quasi quotidianamente si gioca una dura partita, alla ricerca di un sottile, e forse impossibile, equilibrio tra ciò che lui costruisce e ciò che deve essere ragionevolmente distrutto. Nei giorni della settimana dedicati alle pulizie, poi, si rischia davvero la crisi diplomatica, con trattative che neppure all’ONU. Lui il giorno prima ha inevitabilmente costruito l’opera del secolo, tipicamente un grattacielo a venti piani, completo di giardini, fermata del tram, stazione ferroviaria, fattoria degli animali, caserma del vigili del fuoco e chi più ne ha, naturalmente non amovibile senza danni permanenti alla medesima. Gli altri hanno l’ovvia necessità di liberare i pavimenti da qualsiasi oggetto possibile allo scopo di pulire il pulibile. Il rischio, concreto e spesso inevitabile, è quello di scatenare una guerra di nervi, tra le sue incontenibili proteste: “L’ho appena finitooooooo!!! Non posso distruggerlo!!!!!” e il richiamo agli inevitabili doveri dell’economia domestica: “Dobbiamo pulire, toglilo da lì. Se riesci a spostarlo intero, bene, altrimenti devi smontare tutto. Adesso. Subito.”
E’ dura la vita del genitore, della madre in particolare. Mi si spezza il cuore, a volte, quando lo devo costringere a disfare una costruzione nella quale l’ho visto metterci l’anima, per ore, dimenticandosi di tutto il resto del mondo che gira fuori dalla sua stanza. Mi sono sentita cattiva, insensibile, inadeguata. E ho cercato una giustificazione che potesse andare oltre le (inevitabili e sacrosante) esigenze di igiene domestica.
Mi sono ricordata del Mandala e del suo significato nella tradizione originaria. Una volta, alcuni anni fa, ho partecipato personalmente ad una sua costruzione: è un procedimento di ore, chinati a terra, a creare forme e colori, secondo un procedimento misterioso e lavorando fianco a fianco con persone che magari neppure conosci, incastrando il tuo pezzettino di lavoro al loro, fino alla fine, fino a quando si crea una piccola opera d’arte. Quando tutto è finito, dopo aver ammirato il risultato di cotanto lavoro, tutto viene distrutto: nulla è per sempre.
E’ (dovrebbe essere) la lezione della vita: e sarebbe meglio impararla da piccoli.